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Libertà e potere non vanno in coppia

aus Lotta Continua, 9.9.77

 

In un’ampia conversazione con alcuni militanti di Lotta Continua, Jean-Paul Sartre risponde alle polemiche in cui è stato coinvolto negli ultimi mesi ed espone gli approdi recenti della sua riflessione teorica, culturale, politica. L’appello degli intellettuali francesi, la tendenza autoritaria degli Stati europei, l’eurocomunismo, il dissenso nell’Est, la funzione degli intellettuali, la libertà e il potere nei movimenti degli ultimi anni, il marxismo oggi. Un messaggio ai giovani che andranno a Bologna.

 

Roma – Jean-Paul Sartre è il più prestigioso tra gli intellettuali francesi firmatari dell’appello contro la repressione in Italia. Grande scandalo ha recato il fatto che egli vi abbia aderito. Il ministro Cossiga lo ha bruscamente invitato a non impicciarsi degli affari altrui. Il PCI ha avvertito che il filosofo è ormai “vecchio e quasi cieco”.

Sull’argomento, come sulle sue posizioni politiche e i suoi programmi di lavoro, Sartre aveva mantenuto il silenzio durante tutti gli ultimi mesi. Ha però accettato volentieri di concedere un’intervista esclusiva a Lotta Continua. Così lo abbiamo potuto incontrare in un caffè romano, nei pressi dell’albergo in cui – da molti anni – trascorre i suoi mesi estivi con Simone de Beauvoir. Più che di una intervista si è trattato di una conversazione nel corso della quale alcuni militanti di Lotta Continua hanno informato Sartre della situazione italiana ed hanno discusso con lui. Alla conversazione ha preso parte anche Simone de Beauvoir.

“Perché dopo tanti anni vi date ancora abitualmente del “voi”?”

Simone de Beauvoir ride. « La colpe è mia – risponde – che ero abituata sin da bambina a dare del “voi” ai miei genitori, e poi a tutti gli amici più cari. Sartre, per parte sua, aveva l’abitudine di dare spesso del “tu”, ma si è lasciato imporre questo mio costume.” Quando entriamo nel vivo della conversazione Sartre parla lentamente e misura le parole con voce stanca. Ha superato i settanta anni e pesano sul suo fisico le fatiche degli anni ’50, quando si era imposto un ritmo di lavoro troppo elevato. Nonostante ciò è con lucidità che risponde u alle nostre domande. La prima domanda, naturalmente, è sull’appello contro “ la repressione del compromesso storico” degli intellettuali francesi.

LC: Sartre, perché ha firmato?

JPS: Ho firmato pur approvando solo in parte le considerazioni contenute in quell’appello: in particolare ritengo imprecisa la definizione di “repressione del compromesso storico”. Ma non ho dato grande importanza alla definizione perché non posso accettare che un giovane militante sia assassinato per le strade di una città governata dal partito comunista. Tutte le volte che la polizia di uno Stato spara su un giovane militante, io sto dalla parate del giovane militante.

LC: Già, ma nell’appello si denuncia anche la mutata qualità della repressione in Italia da quando i principali partiti politici hanno raggiunto un accordo di vertice.

Basta pensare all’atteggiamento diversissimo che il PCI ha tenuto nei confronti del movimento giovanile e studentesco: nel ’68, seppur criticamente, lo appoggiava; oggi gli si contrappone.

JPS: Io sostengo da tempo che in tutta l’Europa occidentale è in corso una involuzione autoritaria degli Stati. Il modello è quello della Germania federale. Credo che l’eurocomunismo sia al tempo stesso partecipe e vittima di questa tendenza: ne è percorso come tutti gli altri partiti politici. Immagino che ciò valga anche per il PCI.

LC: Eppure lei ha sempre considerato il PCI un partito più “ricco” e radicato che non il PCF.

JPS: Sì, l’ho pensato lungo, almeno fino alla svolta del compromesso storico. Vedo molto male il compromesso storico, anzi penso che proprio di lì – dalla ricerca di un rapporto con la Democrazia Cristiana – si origini la tendenza del PCI non è più quello di Togliatti.

LC: Dunque il PCI trarrebbe soltanto dal suo rapporto con la DC – da sempre reazionaria – la sua vocazione autoritaria? Non crede che porti una sua idea, un suo contributo specifico alle svolte dello Stato?

JPS: Certamente sì. C’è una violenza specifica dei partiti comunisti, quello dell’URSS parla per tutti. Ma il partito italiano riusciva con Togliatti ad evitare queste forme di totalitarismo, ora ci sta tornando. Comunque io non credo che l’eurocomunismo sia un comunismo senza violenza. Vi ripeto, ho conosciuto Togliatti e tanti uomini di cultura legati al PCI, e vedevo in loro una “souplesse” che mancava ai dirigenti stalinisti del PCF. Secondo me ciò dipendeva dal grande scontro con il fascismo e dalla vittoria del ’45, ottenuta in nome di un’idea di libertà molto radicata tra le masse. Vi era in quegli uomini una forte attenzione ai movimenti sociali, oggi invece l’attenzione è concentrata sullo Stato e sul Potete.

LC: Ma qual’era l’idea di libertà che animava il PCI differentemente dagli altri partiti, e da dove veniva?

JPS: Penso che nel PCF non c’è nessuna idea di libertà, e anche nel PCI non è definita, non è sviluppata, ma vi si può cogliere una sensazione: che ciascuno porta sulle sue spalle un’idea di libertà che è differente, che è la libertà pratica di muoversi in una maniera autonomamente prescelta, o prescelta collettivamente; ma che non è fondata esclusivamente su circostanze esterne. Ho conosciuto parecchi comunisti italiani, nella prima parte della mia vita, nel ’45, ’55, ’60. E ho ravvisato questa differenza rispetto ai francesi: che un comunista francese non è mai sé stesso, è un personaggio che dice di essere qualcosa, che parla in un modo determinato e manifesta delle idee che sono eguali per tutti fin dall’inizio. I comunisti italiani – naturalmente vi sto parlando sempre di molti anni fa., quando amavo stare in loro compagnia – avevano una sorta di spontaneità che mi interessava, perché in Francia l’idea di spontaneità era completamente abbandonata in politica: e non soltanto dai comunisti ortodossi, ma anche dai trotzkysti.

Interviene Simone de Beauvoir: Ma anche in comunisti italiani avevano, pur tuttavia, i loro pregiudizi. Non ricordi quando Alicata ci diceva che la musica moderna era buona per essere gettata ai cani!

LC: Oggi, ricollegandosi alla tradizione di cui parlava Sartre, un dirigente comunista come Ingrao identifica nella partecipazione capillare delle masse alla vita dello Stato la base per una trasformazione democratica dello Stato stesso. Altri, nel PCI, dicono addirittura che la classe operaia deve “farsi Stato”.

JPS: La partecipazione è cosa differente dalla democrazia di base. Io resto convinto che la democrazia di base può crescere solo all’interno di un movimento di opposizione, non all’interno di uno Stato.

LC: Non crede dunque che questa “souplesse” del PCI rispetto ad altri partiti abbia delle motivazioni piuttosto strutturali? Che tragga cioè origine dalla sostanziale unità della classe operaia italiana, la quale non ha mai conosciuto le spaccature verticali con gli immigrati della classe operaia francese e tedesca? In fondo è da quella spaccatura che hanno potuto trarre origine, seppure in modo diverso, la degenerazione stalinista del PCF e la socialdemocrazia tedesca. Forse sono mutamenti strutturali anche quelli che oggi tendono ad allineare il PCI agli altri …”

JPS: Ne sono assolutamente convinto anch’io.

LC: Ma torniamo al suo giudizio sul PCI. Come si possono accoppiare la spontaneità in politica e un progetto di compenetrazione nello Stato?

JPS: E’ vero, c’è una contraddizione. Ma nonostante ciò è possibile concepire una politica nella quale la spontaneità mantenga un suo spazio … è un discorso che ci porterebbe lontano. Proprio su queste idee sto lavorando attualmente con il mio amico Pierre Victor, un ex dirigente filo-cinese. Diciamo in ogni caso che il PCI, fino agli anni ’60, aveva tenuto aperta questa possibilità di convivenza, e i suoi uomini avevano una loro vita personale, una vita privata, pensavano per se stessi, erano degli individui. Avevano naturalmente dei pregiudizi, ma chi, allora, non ne aveva? Ma si poteva avere un’amicizia con loro. E questo in una situazione in cui, pur avendo lavorato insieme a un partito comunista a partire dal ’50  e fino all’arrivo di De Gaulle al potere, non potevo avere con gli uomini di quel partito rapporti privato, non astratti.

LC: Quale è, secondo lei, la concezione dello Stato dei partiti eurocomunismi? Pensa che si ispirino in qualche modo al modello degli Stati dell’est, o che abbiano una concezione diversa?

JPS: Penso che i partiti eurocomunismi parlano di una nuova forma dello Stato ma in realtà si orientano verso una concezione dello Stato borghese e tradizionale. In fondo l’eurocomunismo è per l’instaurazione di uno Stato, o meglio di un governo, assolutamente conforme nel suo aspetto al governo borghese, ma con una tendenza sociale più marcata. I dissidenti dell’est hanno delle idee molto diverse: differenziate anche tra di loro, ma comunque diverse.

LC: Conosciamo l’iniziativa che lei ha preso a Parigi insieme ai dissidenti dell’est, in occasione della visita di Brezhnev a Giscard d’Estaing. Crede che nel movimento dei dissidenti vi sia un potenziale di trasformazione e di emancipazione, o si tratta solo della reazione ad un regime esistente?

JPS: E’ difficile dirlo, in fondo non se ne sa molto. Cogliamo le cose così come esse ci si presentano, con la speranza che questo movimento comporti realmente un cambiamento di programma anche nei governi dell’est. Ma questa non è che una speranza, una possibilità. Cogliamo questa possibilità, man non sappiamo se sarà proprio quella che si svilupperà. Gli uomini che abbiamo incontrato quel giorno erano molto diversi tra loro: alcuni sono ancora marxisti e rimproverano al governo sovietico di essersi allontanato dal marxismo; altri, al contrario, lasciano il marxismo alla classe dirigente sovietica e si considerano non marxisti. Ma questi uomini erano lì, seduti agli stessi tavoli, per discutere.

LC: Qual è l’aspetto comune?

JPS: L’aspetto comune è la critica dei campi di concentramento e degli ospedali psichiatrici. E’ una critica che naturalmente può essere fatta da punti di vista differenti: l’idea di prender un uomo sano e trattarlo come un malato, e internarlo come tale in ospedale psichiatrico, è un’idea che tendenze di sinistra, ma anche di destra, possono considerare insopportabile. Di conseguenza sono tutti d’accordo su questo punto. Per raccontare un aneddoto illustrativo, quando in quella riunione alcuni cantori popolari esiliati si sono messi a cantare sfottendo, certi aspetti del governo sovietico e della classe dirigente, tutti ridevano insieme. Essi non formano un’organizzazione, e ‘d'altronde non potrebbero lontani tra loro. Ma ritrovano la propria concretezza e la propria unità quando protestano contro questa o quella misura del regime.

LC: Ma esiste, dunque, un progetto di trasformazione?

JPS: No, non ancora.

LC: E lei pensa che ci si possa arrivare?

JPS: Può darsi, ma per dire la verità io conto di più sugli oppositori che sono rimasti nel proprio paese che non su quelli che sono all’estero. Raramente viene dall’estero il principio di una nuova rivolta, o anche di una rivoluzione; è un principio che nasce, di solito e soprattutto, tra gli oppositori che stanno all’interno del paese. Sono molto legati a Solgenitzin, anche se molti di loro no lo amano affatto. Se lo tengono per sé, ma non lo amano affatto. Solgenitzin continua a rappresentare un tramite e un legame tra loro, anche se si è rifiutato di venire dagli USA a quella riunione.

LC: Quando i dissidenti parlano di diritti dell’uomo, essi chiedono questi diritti in nome di una classe e di una emancipazione di classe, o piuttosto in nome delle loro conoscenze scientifiche o professionali, come depositari della Verità?

JPS: Dipende da caso a caso. Vi ho già detto che essi si presentano come uomini legati tra loro in negativo, non su una idea comune. Perciò essi non rappresentano un’organizzazione che possa dire “ecco cosa rifiutiamo ed ecco cosa vogliamo”.

LC: Ma lei, personalmente, cosa ne pensa?

JPS: Certamente si tratta di intellettuali, almeno per lo più. Ma non chiedono la libertà soltanto per gli intellettuali. In realtà essi chiedono un cambiamento generale e si avvicinano alle masse perché certamente vogliono restituire alle masse le libertà politiche.

LC: Ritorniamo su questo punto, perché è una discussione che ci ha impegnati molto nel corso dell’estate. Uno dei principi fondamentali del marxismo dice che l’emancipazione del proletariato è l’emancipazione dell’umanità, e l’emancipazione dell’umanità non può che venire dal proletariato. Il problema è se l’esistenza del dissenso come appello alla libertà – non venendo direttamente dal proletariato – rimette in discussione, secondo lei, questo principio del marxismo.

JPS: E’ difficile dirlo, ma è evidente che essi non hanno un grande contatto con il proletariato russo. Certo, vi sono delle infiltrazioni nella fila del proletariato, ma poco numerose, e comunque essi non si servono di modi di pensiero proletari. Questo anche ammesso che vi sia una rivolta all’interno del proletariato stesso, il quale peraltro non sa ancora bene quale strada prendere. Ma ciò che stupisce è che la parte rivendicatrice e combattiva del proletariato e il dissenso intellettuale di cui stiamo parlando, non trovano mai un legame reale. Il fatto che gli intellettuali concepiscano una società in cui il proletariato abbia il suo posto – essenziale d’altronde poiché molti di loro sono marxisti – e in cui il proletariato si occupi delle altre classi non proletarie, non è cosa certa. In ogni caso si tratta di ipotesi, perché questi legami non esistono.

LC: Poiché anche in Europa occidentale il potere tende ad accentrare in modo totalitario tutti il comportamenti politici, a registrarli all’interno dello Stato, non crede che si possano prevedere forme di dissenso analoghe a quelle dell’est? Cioè che una lotta in difesa delle libertà individuali si diparta da strati intellettuali, o comunque non proletari?

JPS: Sì, solo che queste forme non potranno avere lo stesso senso. Perché la rivoluzione russa è stata nello stesso tempo orientata in modo differente e poi trasformata al suo stesso interno, i dissidenti ne hanno coscienza. La morte di Stalin ha avuto un’importanza capitale, più di quanto non si veda esteriormente. Sono andato per una decina di anni di seguito in URSS, ho avuto a che fare con non pochi dissidenti, tutta gente che sentiva molto chiaramente cosa rappresentasse la morte di Stalin, e che si è riunita, si è messa a parlare in piccoli comitati.

Dunque essi si trovano in una situazione particolare. Da noi, nel caso ci si dovesse battere per le libertà individuali, dovremmo situare questa lotta in una tradizione storica molto differente. Mi spiego: la lotta per le libertà individuali si situerebbe in una prospettiva storica e non contingente; ad esempio in Francia c’è un passato storico di lotte per la libertà, fin dal 1789. In URSS questa è una realtà presente, viva, attuale; in questo momento è una realtà non completamente sviluppata e definita, ma tutti i russi la sentono in un senso o nell’altro.

LC: Dopo i fatti di Bologna e alcune prese di posizione di intellettuali italiani, si è arrivati anche da noi a parlare di dissenso. Secondo lei esistono le condizioni per l’esistenza di un fenomeno specifico che non coincide né con la lotta di classe, né con l’opposizione politica, ma con un movimento di intellettuali del dissenso?

JPS: So che esiste questo fenomeno e che esiste nell’est qualcosa che gli è vicino, ma non penso che vi possa essere una influenza reciproca. E’ difficile a dirsi, ma esiste certamente un legame, senza influenze, tra il fatto che lo Stato divenga più duro oggi – o che venga distrutto e si perda domani – nell’’Europa occidentale e in URSS; esiste una relazione tra il fatto che degli oppositori si sollevino contro questi Stati all’ovest e all’est. Ciò va messo in relazione a una situazione più generale che è il rapporto tra le masse e gli Stati ovunque, in questa epoca. E’ questa situazione storica che occorrerebbe studiare: la situazione storica della fine dello stalinismo e della fine delle repubbliche borghesi, o in ogni caso dell’inizio della loro fine.

LC: Ad esempio un polemica come quella tra Sciascia e Amendola sul rapporto degli intellettuali con lo Stato non riflette una tendenza all’organizzazione repressiva del consenso in occidente analoga a quella che da tempo vige nell’est?

JPS: Certamente vi è una relazione.

LC: Lei ha sottoscritto quest’anno, insieme a Scoscia, un appello per il boicottaggio delle elezioni europee del ’78 nel quale si parla di “lotta contro un’Europa germano-americana”. E poi ricordiamo soprattutto la sua visita del ’75 ai detenuti politici della RAF, in Germani federale. Dopo quella visita ha rilasciato delle dichiarazioni molto pessimiste, affermando di avere ottenuto reazioni opposte a quelle che voleva suscitare tra la popolazione. Dunque queste forme di contrapposizione individuale all’apparato di consenso dello Stato – che pure lei ha sperimentato – hanno o non hanno una prospettiva?

JPS: Qualche prospettiva dovrà pur esserci se è vero che in Germania federale vi è una resistenza – che sia di Baader o di altri – e questa è una realtà esistente. La Germani autoritaria è contestata, tutti i tedeschi lo sanno, tutti in Germania sono disturbati da questa contestazione. E’ pur sempre una forza. E ancora pochi giorni fa avete visto portare a termine una operazione di rapimento senza una piega, eseguita alla perfezione. Si tratta di uomini addestrati e che agiscono solo su un piccolo punto, ma che sul piano della lotta puntuale sono apprezzabili. Da noi in Francia, non esiste un fenomeno analogo. Naturalmente ci sono degli attentati, ma non inseriti in un programma. Detto questo non penso che tali azioni possano essere utili per una rivoluzione, su un piano più generale.

Quando ho fatto le mie conferenze-stampa pensavo che la mia azione non sarebbe servita a niente. Non ho cambiato di molto la mia opinione, lo penso ancora, ma constato che la RAF ha una forza negativa assai impressionante; che gli assassini e i rapimenti che fanno possono dare, su un punto particolare, dei risultati. Per esempio può darsi che vengano liberati i prigionieri della RAF.

LC: Che rapporto esiste tra questo clima di unanimità – verificato ad esempio in Germania federale – e l’irreggimentazione degli intellettuali? Diverranno, questi intellettuali, dei funzionari dello Stato?

JPS: Per quanto conosco l’Italia e i suoi intellettuali questo non dovrebbe accadere da voi. Forse è un sogno dei funzionari dello Stato.

LC: La polemica Sciascia – Amendola centrava proprio questo punto. Se gli intellettuali debbano divenire dei difensori dello Stato, oppure se debbano mantenere una indipendenza dallo Stato.

JPS: Ma, naturalmente, essi debbono mantenere sempre una indipendenza dallo Stato, devono mantenere una distanza! Detto questo, essi debbono criticare lo Stato, dal loro ruolo differente. Non debbono essere ostili per definizione, ma è essenziale il potere critico, che è una delle forme della critica sociale di oggi. Questo può essere lo sforzo di formulare le critiche che sono presenti nel popolo, senza essere precisate. Vi è un ruolo critico dell’intellettuale che è proprio quello negato da tutto un settore della sinistra; il ruolo critico dell’intellettuale è per esempio soppresso del tutto in URSS, non esiste. Ma in Francia e in Italia si è sempre creduto a questo ruolo critico dell’intellettuale e alla sua indipendenza; a parte naturalmente alcune categorie di persone, ma secondarie.

LC: C’è però una grande differenza tra la Francia e l’Italia. In Francia gli intellettuali hanno sempre mantenuto una loro indipendenza perché i partiti contano poco nel funzionamento della macchina statale; il partito di governo è sempre stato più che altro una macchina elettorale, mentre i partiti di sinistra fino a ieri hanno avuto un peso minore nella vita politica. In Italia c’è stata una corsa al reclutamento degli intellettuali da parte del PCI interrotta per la prima volta – è importante dirlo – dall’appello degli intellettuali francesi. Non solo per servilismo, ma sopratutto perché è difficile per un intellettuale trovare un proprio ruolo e una propria funzione al di fuori della macchina partitica. Molto spesso per l’intellettuale italiano è difficile, o impossibile, esercitare la sua funzione, non riesce a trovare un proprio spazio fuori da questo sistema. Oggi questa macchina partitica diviene direttamente una macchina statale.

JPS: E’ un gran peccato!

SdB: Ma restano pur sempre degli intellettuali molto indipendenti come Sciascia.

LC: Certamente, ma esaminiamo pure la sua vicenda. Egli è rimasto a lungo a fianco del PCI,come indipendente. Ha deciso di rompere questo rapporto solo dopo il convegno del PCI sugli intellettuali, a gennaio. Fino ad allora egli pensava che non fosse possibile fare niente al di fuori del PCI. Si tratta di una posizione molto comune tra gli intellettuali italiani, che spiega la loro corsa verso il PCI. La loro difficoltà a stare fuori dal sistema dei partiti non è – evidentemente – solo di tipo economico, è più di fondo.

Dunque che ruolo e che spazio debbono avere gli intellettuali che vivono in una società autoritaria, in questo nuovo tipo di Sciascia? Che tipo di rapporto debbono intraprendere con i movimenti di opposizione? Teniamo conto del fatto che la loro collaborazione è determinante per la trasformazione dello Stato in senso autoritario. E starne fuori, di per sé, non basta. E’ difficile pensare che Sciascia possa astenersi dalla collaborazione con il regime e fermarsi lì.

JPS: No, non si tratta di fermarsi lì. Scrivere e dire tutto quel che si pensa su ciò che accade, questa è l’idea essenziale dell’intellettuale.

LC: Spesso l’equilibrio tra integrazione nel regime e opposizione attiva finisce per essere soltanto il silenzio. Come ci si può barcamenare tra organizzazione del consenso attivo e dissenso dichiarato? Non a caso Sciascia tace da alcuni mesi.

JPS: Ma in Francia non è così. Il rapporto con lo Stato non può che essere negativo; è capitale il rapporto con il consenso, è il solo che conti. Di conseguenza un intellettuale non potrebbe mai fare parte di un partito. Ovviamente ci sono degli intellettuali che stanno nel partito socialista, ma non sono importanti. Quando si vuole prendere in giro il PS si dice “che intellettuali hai?” ed essi citano uno o due disgraziati.

SdB: E il PCF è lo stesso.

JPS: Dunque vi sono degli intellettuali che sono influenzati dalle idee e dalle prospettive d’azione di questi due partiti, ma non vi si legano se non per le idee e gli obiettivi comuni.

LC: Ma in Francia i partiti non orientano su tutto l’arco delle questioni che riguardano la vita di un uomo, mentre in Italia i partiti dirigono tutto. Quindi in Italia un intellettuale o si oppone a quello che dice un partito oppure, se vi aderisce, deve aderirvi anche su questioni che esulano dalla lotta politica quotidiana.

JPS: Ma è proprio per questo che in Francia nessun intellettuale vuole avere a che fare con i partiti.

LC: Per esempio non si può aderire al PCI e mantenere una morale diversa da quella dei sacrifici. Una femminista che aderisse al PCI dovrebbe rinunciare a tutto ciò che riguarda la riscoperta del desiderio e la ricerca del piacere. Perché il partito è portatore di una concezione del mondo e della vita assolute.

SdB: A questo proposito vorrei farvi una domanda io: è vero che le femministe hanno abbandonato Lotta Continua perché vi si trovavano oppresse? Ne sono rimaste ancora?

LC: Se ne sono andate quasi tutte ….

SdB: Dunque siete degli oppressori …

LC: Sì, ma da quando sono uscite i nostri rapporti con loro sono di molto migliorati. In Italia il movimento femminista ha costituito la contraddizione principale all’interno della sinistra rivoluzionaria. Grazie all’esistenza di un forte movimento di classe, le organizzazioni rivoluzionarie italiane sono durate e durano più a lungo di quelle di altri paesi. E un colpo decisivo l’hanno ricevuto proprio dal movimento femminista.

Vorrei farle, Sartre, un’altra domanda che concerne il ruolo degli intellettuali e il suo in particolare. Nel 1968 – lo ha affermato lei – il movimento studentesco si è fatto portatore di una critica molto radicale del ruolo degli intellettuali . Tra l’altro abbiamo letto in “Ribellarsi è giusto” che proprio in un’assemblea con gli studenti di Bologna, nell’estate del 1968, cominciaste questa riflessione …

JPS: E’ esatto, ero con un mio amico jugoslavo. E avevamo discusso a lungo dell’esperienza di Basaglia a Gorizia.

LC: Dunque, si può dire che – con la crisi delle strutture tradizionali leniniste della sinistra rivoluzionaria in Francia e in Italia, e con la fine di miti e forme di moralità dogmatiche presenti nel maggio 1968 – oggi la critica del ruolo degli intellettuali che viene dal movimento giovanile è ancor più radicale di allora? Certamente lei era molto più conosciuto tra i giovani francesi del ’68 che non tra i giovani italiani del ’77. Ma questi ultimi – che sono portatori di parole d’ordine come “il personale è politico”, che considerano centrale la liberazione degli individui, che si sono fatti influenzare profondamente dai contenuti del movimento femminista – non sono forse più vicini alla sua filosofia e al suo lavoro teorico degli anni ’50? Anche se lei non è così conosciuto, non crede che la sua filosofia sia più diffusa che non nel maggio ’68?

JPS: Però resta sempre anonima!

SdB: E perché?

JPS: Si tratta di soggetti generali di cui i giovani parlano e che in effetti si ricollegano alle mie preoccupazioni. Ma non si parla della mia filosofia, non si parla di Sartre. Ripeto: la mia filosofia resta del tutto anonima. In Francia, per esempio, il movimento chiamato dei “nuovi filosofi” …

SdB: Ma questi non c’entrano nulla …

JPS: Stavo appunto dicendo che non c’entrano nulla con me, anzi li considero contrapposti alle mie posizioni.

SdB: Sì, in fondo sono di destra.

LC: Certamente c’è una grande differenza politica e di analisi sociale tra lei e i “nuovi filosofi”. Ma non crede che le sue attenzioni ormai decennali alla salvaguardia delle libertà individuali all’interno della trasformazione socialista, e la sua rottura con l’URSS nel ’56 li abbiano in qualche modo potuti ispirare?

JPS: No, non lo credo affatto.

LC: Ma in fondo non sono ancora giunti a polemizzare con voi ….

SdB: Ma figuriamoci! Non ripresentano nulla, non sono dei filosofi! Sono gente che si è disgustata del marxismo, e che ora vuole arrivare … Sono dei direttori di collane editoriali, non sono niente! Sono incredibilmente montati! Sono tutti di destra, tranne uno che stimiamo molto, Glucksmann, che pure è su posizioni ambigue.

JPS: Sì, Glucksmann è un tipo che ha delle idee …

SdB: Ma per il resto servono solo alla borghesia. Adesso gli americani li recuperano: nel Time io e Sartre veniamo presentati insiemi ai dissidenti dell’URSS, e perciò stesso ci si considera come facenti parte dei “nuovi filosofi”: e così chiaro che non abbiamo niente a che fare con loro!

LC: Lombardo Radice, a nome di tutto il PCI, ha anch’esso messo Sartre, i giovani di Bologna, gli altri intellettuali del dissenso, tutti nella barca dei “nuovi filosofi”.

SdB: E’ una confusione che non possiamo tollerare.

LC: Lei ha detto che dal 1917 fina al 1940 ha avuto l’impressione che il tempo si svolgesse molto lentamente e che non vi sarebbero stati cambiamenti sostanziali prima del ventinovesimo o trentesimo secolo. Poi, secondo lei, la storia ha preso un ritmo più rapido. Perché?

JPS: Certamente la storia ha preso un ritmo più rapido.

LC: E’ un’impressione personale?

JPS: Personale, personale, ma non è esattamente ciò che volevo dire. In realtà, già nel 1914 ebbi un impatto violente con la Storia: ero molto giovane, vivevo in provincia, e la Storia mi aveva sovrastato. E la seconda volta che mi colpì con questa forza fu nel 1917. Con l’apparizione della rivoluzione russa si ebbe une degli avvenimenti capitali di questo secolo.

Dunque sentivo qual’era la rapidità di svolgimento degli avvenimenti, l’avvertivo vagamente, nel mentre che li vivevo.

E poi c’è stata l’apparizione dei partiti comunisti, è anche questo un fatto essenziale. E ancora la seconda guerra mondiale. L’attenzione si è quindi spostata sul terzo mondo, e anche questo non è un fatto da poco. C’è stata la rivoluzione cinese. E poi si è avuta una trasformazione interna dell’idea marxista del 1905. Quando sono nato c’erano le idee rivoluzionarie russe che poi si sono trasformate fino a diventare quella strana cosa che è oggi il socialismo. Molti marxisti sono divenuti anti-marxisti, o non più marxisti, ed è questa evoluzione di settantacinque anni che lo ha reso possibile. Nel 1910 si studiavano marxianamente gli avvenimenti, oggi no, oggi si tende ad uscire un po’ dal marxismo, si comincia ad uscirne.

SdB: E’, se permettete, come si situa Lotta Continua rispetto al marxismo?

LC: Si tratta di una discussione in pieno corso. Subito dopo la nascita dell’organizzazione non ci si preoccupava di questo: per noi c’erano la lotta degli operai e la lotta degli studenti, si trattava di raccogliere ciò che veniva da queste lotte e così si riformulava la teoria rivoluzionaria. Siamo andati avanti così per molti anni, eravamo quelli che, per eccellenza, non facevano della teoria. Poi, negli ultimi anni, abbiamo cominciato a fare i conti con il marxismo. Siamo divenuti , se non dogmatici, certamente molto ortodossi. Infine, nello scorso anno, soprattutto in seguito alla critica femminista, sono emerse fra noi le ragioni della crisi di un’organizzazione rigida e centralizzata. E ora i conti li facciamo con il marxismo più in generale; e ci domandiamo cosa significhi essere marxisti. Anzi, è una domanda che volevamo fare proprio a lei, Sartre: che cosa significa oggi, in questo momento, essere marxisti?

JPS: Non sono più marxista! Da due o tre anni. E neppure Pierre Victor lo è più. Più precisamente noi vogliamo ricostruire in questo periodo tutto un pensiero teorico non marxista, tenendo pur tuttavia in conto del marxismo, che è un grande fenomeno di pensiero. Il marxismo è stato una direzione di pensiero capitale durante i primi sessanta anni di questo secolo, non lo si può rigettare come si lascia cadere; non si tratta di questo. Oggi bisogna definirsi nello stesso tempo: nel passato in rapporto al marxismo e nel futuro in rapporto a quel che si vuol provare a mettere al mondo, che d’altronde comporterà molti elementi marxisti. E’ quello che tentiamo di fare attualmente Pierre Victor ed io.

LC: Quale è il vostro piano di lavoro in questo senso?

JPS: Il tema del nostro lavoro attuale è: il potere e la libertà. Ci sta lavorando soprattutto Pierre Victor, ma io lo approvo. Consideriamo le masse, in generale, dotate di una iniziative di volta anche quando sembrano d’accordo con il governo.

Dunque vi è una forza di rivolta che è origine di libertà. E bisogna quindi riguardare tutto il rapporto tra masse e Stato. Questa è una prima parte del nostro lavoro, conci vorremmo studiare le cose lungo qualche secolo, dalla rivoluzione francese. Di qui vorremmo arrivare al secondo punto, uno studio della situazione attuale: la società di oggi, e al suo interno le tendenze verso un irrigidimento dello Stato che voi stessi avete molto esattamente mostrato. D’altronde si tratta di un irrigidimento non sempre riuscito. Da noi in Francia un governo delle sinistre unite costituirebbe certamente un potere di costrizione, come del resto fa quello di Giscard d’Estaing. Ma vi è tutta una serie di forze, sia da destra che dall’estrema sinistra, che si preoccupano perché questa costrizione si prevenuta e moderata.

LC: Il problema fondamentale è il rapporto tra la trasformazione degli individui e il potere; e in particolare tra la trasformazione degli individui e la presa del potere. E qui il tempo gioca un ruolo essenziale: quando lei dice che negli ultimi tempi gli accadimenti storici hanno preso un ritmo più rapido, ciò riguarda piuttosto il punto di vista del potere o quello della trasformazione degli individui? Forse riguarda di più il secondo aspetto …

JPS: Sì, anch’io penso che riguardi di più il secondo aspetto, ma anche il primo – quello del potere – è molto importante. Noi pensiamo che vi sia una tendenza alla progressiva degradazione del potere, questo è uno degli elementi essenziali della nuova rivoluzione che potrà prodursi. Perché la libertà non va in coppia con il potere: tra loro c’è una contraddizione evidente.

SdB: Sì, perché la gente prende sempre di più nelle proprie mani le proprie rivendicazioni. Per lo meno in Francia, che si tratti della LIP o di altro …

JPS: Un’ultima cosa vi vorrei dire: se io e Simone de Beauvoir non verremo a Bologna il 23, 24 e 25 è perché ritentiamo che quel che vi dovrà accadere è questione che riguarda gli italiani tra loro. Non che i fatti generali, per esempio il fatto che uno studente sia stato ucciso, non riguardino tutti. Ma né la situazione così come si è definita, né quindi la possibilità che si producano degli avvenimenti gravi ci riguardano più. Io e Simone de Beauvoir vogliamo manifestare la nostra solidarietà alle migliaia di giovani che andranno a Bologna.

Ma questa lotta è una lotta innanzitutto italiana. Naturalmente vi sono degli elementi di natura universale che noi ci premureremo di rilevare. Per questo resteremo in contatto con voi. Non che io creda all’esistenza di un carattere italiano nel senso profondo del termine, non è questo, ma io penso che ci sia una ricchezza di cultura italiana che proprio per questo trasforma gli individui. Un individuo è sempre un individuo, ma è italiano o francese perché interviene in mondo culturale che è differente. E quello di cui parliamo è un problema culturale – certamente non solo culturale! – italiano.

Non sarei stupito che il 23 ci siano ancora dei morti …

LC: Speriamo di no!

JPS: Anch’io spero che non ce ne siano, ma non ne sono sicuro. Voi neppure d’altronde.

A questo punto siete voi che fate accadere le cose noi saremo in Francia e resteremo in comunicazione con voi.

SdB: Ma dove potranno abitare le migliaia di giovani che arriveranno a Bologna?

LC: Abbiamo chiesto di disporre dei parchi cittadini per piantare le tende. Non vediamo altra soluzione realistica.

SdB: E’ appassionante. Se avessi vent’anni di meno, anche a me piacerebbe molto abitare in quei camping!

 

(a cura di Tano D’Amico, Gabriele Giunchi, Gad Lerner, Luigi Manconi e Guido Viale).